Limbo

 Prologo

Un respiro. Gli ultimi affanni di un uomo a metà tra questo mondo e l’altro di cui tuttavia, tra le nebbie dei ricordi della sua vita, ora dall’apparenza brevissima, non trapela nulla. Solo vaghe visioni fuggevoli di un letto di morte ove il suo corpo straziato dal dolore delle ferite riportate in battaglia, venne confinato nella speranza di un miracolo, o più semplicemente nell’attesa da parte dei presenti spettatori, dell’esalazione del suo ultimo respiro. Vivido tra i suoi pensieri, vi era solo il volto del suo assassino, l’uomo dal sangue di Drago, dagli occhi infuocati che sembravano inghiottire le anime di chi vi posasse lo sguardo, per poi rigurgitarle in un mare di riflessi, dove non ci sono più distinzioni tra le cose. Il tempo scorreva segnato dalla cera di una candela accanto al suo letto. Aveva sentito al riguardo il dottore proferire profetiche parole: egli sarebbe spirato non prima del termine di quella candela, la cui luce fioca era lo specchio della sua esistenza volta alla conclusione. Quando la vista ritornava a sbirciare le fattezze di questo mondo, egli osservava perennemente la finestra socchiusa dalla quale filtrava aria fresca, e l’odore dei fiori del giardino. Durante l’ultima notte in cui la febbre inondò il suo corpo e la sua mente straziata implorava pietà e il risparmio di quell’ultima, inutile agonia, le sue sofferenze d’un tratto cessarono di botto, e notò la stanza vuota, avvolta com’era in quell’azzurra tenebra di cui lo splendore della luna era l’artefice. La finestra si spalancò all’improvviso, e giunse volando dolcemente, un angelo dal volto femminile, e lo sguardo vago, sperduto tra i suoi pensieri. Non disse una parola sin quando si posò china, con un solo lieve battito d’ali argentee, ai piedi del letto osservando timidamente il paladino che fissava confuso quella visione. Non era ancora pronto a lasciare questo mondo.

Oltre l’angelo, oltre l’abitazione, egli vedeva lontano il suo campo di battaglia ancora fumante ove i suoi uomini giacciono ancora sulla nuda terra privati di una sepoltura, a brandire degli stendardi spezzati e scoloriti. Mentre il paladino tendeva la mano verso un orizzonte immaginario nel vano tentativo d’afferrare l’inafferrabile vessillo, tramontato con lui, l’Angelo tocco le sue dita sfiorando il suo palmo in modo che si distendesse abbandonandosi alla morte.

Capitolo 1: La devastazione

Immerso in un bagno di sudore, il paladino giaceva sul letto dalle lenzuola disfatte e tastava l’aria immota, meravigliandosi che in lui eran cessati tutti i dolori delle ferite di cui poteva osservare le profonde cicatrici le cui dimensioni avrebbero dovuto ucciderlo. Non badando per un attimo all’ambiente circostante, osservò il suo corpo mutilato dai segni delle spade dei suoi avversari di cui un enorme squarcio nel petto, si era risanato miracolosamente. Toccandosi le ferite, gli risovvennero alla memoria i giorni trascorsi nel tormento e nell’agonia dei sensi, il suo corpo morente e i deliri folli, di coloro i quali impazziscono in preda alla morsa della morte che si stringe su di loro lentamente.

Ricordava ancora vagamente il volto dell’angelo il quale aveva alleviato le sue pene, e di cui egli era fermamente convinto fosse venuto per condurlo all’oblio. Invece provava un profondo smarrimento in grado di convincerlo pienamente d’essere ancora vivo, e che quel luogo non potesse essere il regno delle anime mietute, giacché era ancora troppo aggrappato alle debolezze e le sensazioni della carne per aver compiuto l’ultimo trapasso dell’esistenza come lui la conosceva.

La stanza era stranamente vuota, privata di tutte le persone che si erano riunite ad assisterlo quando era in punto di morte. Ivi saltava subito all’occhio come la fiamma della candela accanto al suo letto restasse accesa e non si consumasse di quel poco che bastava per sciogliere l’ultimo residuo di cera rimanente. Una scia di piume era sparsa sul pavimento terminando nei pressi della finestra ove il sole irradiò brevemente la stanza per poi scomparire dentro dei fitti nuvoloni che sovrastavano il cielo.

Andò in bagno osservando la sua immagine riflessa sullo specchio di bronzo: sapeva d’avere occhiaia spaventose, ma ancor più dense e cupe di quanto si ricordasse.

Fu rapido nell’infilarsi i vestiti e s’incamminò lungo le vie d’una città irriconoscibile ai suoi occhi. Il vento spirava forte ininterrottamente alle sue spalle, le nubi scure come mai viste prima d’ora, minacciavano la terra scagliando saette in continuazione. Sebbene potesse sembrare solo una brutta giornata, aleggiava qualcosa di diverso nell’aria che andava ben aldilà della semplice apparenza. Le case avevano porte, finestre e balconi spalancati come in un eccesso di follia generale. Una dimora di pietra levigata aveva la porta di legno abbattuta al suolo. Camminò sopra di essa chinando lo sguardo per guardarla meglio: c’era del sangue distribuito sulla sua superficie ancora fresco. Fu imbrattata con un pennello ed un secchio vuoto dove si vedeva ancora qualche residuo. Entrò dentro l’abitazione nell’intento di capire cosa stesse accadendo. Tutto in ordine: una credenza socchiusa dalla quale era stato preso un piatto poggiato poi sul tavolo, e una pentola ricolma di zuppa fumante, che cuoceva ancora a fuoco lento. Il minuto prima doveva essersi perso qualcosa. Andò nella casa di fronte, in quella successiva e in quella successiva ancora. Stessa storia. La gente aveva svolto le proprie faccende quotidiane quando d’improvviso lasciarono tutto in sospeso svanendo nel nulla.

Tornò ad incamminarsi per la strada ove il vento spirava senza fermarsi un solo istante.

Sperava ad ogni svolta d’incontrar qualcuno in grado di spiegargli l’accaduto, ma non fu così. La città era completamente deserta, e l’unica cosa vivente lungo il cammino fu un orrendo gatto nero sopra il balcone decadente del palazzo più vecchio e mal ridotto della zona. Emetteva costanti quanto insopportabili miagolii striduli, come se fosse in calore. Cercò di saltargli addosso, ma il Paladino ebbe riflessi abbastanza pronti da schivare l’attacco. Quando per rabbia provò a tirargli un calcio, l’orrendo animale era già fuggito. Aveva pensato di recarsi al palazzo del governatore che distava poche centinaia di metri, sebbene d’un tratto non potesse più vederlo poiché si sollevò una nebbia improvvisa densa e spettrale che unita al cigolio della porte spalancate, lo sbattere dei battenti delle finestre contro le pareti e gli stessi lampi di luce precedenti al rombo d’un tuono, lo facevano sentire pronto a scagliarsi contro un nemico invisibile.

Teneva la mano destra incollata all’elsa della sua spada quando giunse dinanzi al cancello del palazzo. Era chiuso, impossibile da aprire, e a tal punto tratto i suoi nervi cedettero all’esasperazione: “Aprite per gli Dei! Qualcuno può spiegarmi dove sono finiti tutti?” disse gridando mentre sbatteva i pugni contro il cancello. Egli non si aspettava risposta alcuna, e difatti le sue grida pareva averle udite solo il vento. Osservò nuovamente la serratura notando che s’era aperta da sola. Il cancello oscillò lievemente restando socchiuso mentre il Paladino fissava incredulo l’evento elaborando varie teorie su come ciò fosse possibile. Dopo aver lasciato perdere la vana idea di raggiungere una qualche conclusione logica lo aprì entrando nel giardino dove i meravigliosi fiori di cui era ricolmo erano svaniti, lasciando posto ad erbacce secche. Così come dei cigni nel lago restavano le teste, brutalmente mozzate, a galleggiare nell’acqua. La grande quercia tuttavia, rimaneva ancora al suo posto, con i propri rami ora tesi verso l’alto privi di foglie e di vita, tesi verso un cielo inesistente oscurato da un'unica nube che muovendosi a velocità spaventosa alternava delle tinte di colori surreali che andavano dal grigio scuro al nero ed un giallastro sporco. I corvi gracidarono alla cima, osservandolo con il loro sguardo torvo indagatore.

Stava aprendo la porta del palazzo, tra le mille domande una sopra le altre, era se avrebbe al suo interno trovato delle risposte. Sentì il vento calmarsi divenendo meno intenso, mentre l’erbaccia alle sue spalle veniva calpestata da qualcuno. Rimase fermo fingendo di non aver udito nulla: aspettò si facesse vicino, che superasse l’aiuola percorrendo l’ultimo tratto della stradina arrivando esattamente dietro di lui. A tal punto estrasse la spada voltandosi di scatto.

Era il medico che lo aveva assistito mentre era a letto morente. Stava fermo, con disinvoltura, a un centimetro dalla lama senza proferir parola. Il Paladino rimase immobilizzato vedendolo così tranquillo e rilassato accennando pure ad un sorriso: “Sei in ritardo vecchio mio” disse. Doveva capire chi dei due era pazzo, ma quella frase gli lasciava pochi dubbi: “La città è deserta e devastata, se guardi il cielo pare si sia verificata l’apocalisse. Su centomila abitanti ci siamo solo noi due, ed il meglio che mi sai venire a dire è: sei in ritardo vecchio mio?! Dottore, ma si è bevuto il cervello?”

Ti assicuro che non è niente di cui preoccuparsi, sono solo disordini temporanei. Tra breve si risolveranno.” In tale frase il medico usava un tono accondiscendente come se stesse parlando con un fanciullo in fasce. Poi, dopo una breve pausa, come spazientito allungò la mano verso l’orizzonte: “Ora va, ti stanno aspettando”.

Poteva essere davvero quel dotto medico a parlare in un modo così sconclusionato? Gli sarebbe bastata una qualunque risposta coerente: “Stammi a sentire…”.

Il dottore era svanito nell’ignoto lasciandolo solo, circondato dalla nebbia a pronunciare altre parole al vento. Nella sua fuga, ammesso che di questo di trattava, lasciò aperta la porta del palazzo. Così entrò, non ritrovandosi nella splendida sala d’ingresso con i busti in marmo dei grandi condottieri, i bracieri decorati e gli splendidi stendardi alle pareti. Davanti aveva solo un buio corridoio privo di finestre, ed istintivamente corse il più rapidamente possibile per raggiungere l’estremità opposta: “Dottore, cosa significa questa storia? Mi risponda!”. Gridava nelle tenebre, mentre l’eco delle sue parole veniva ripetuto molte volte, riecheggiando alle sue spalle, e continuava a correre nel lungo corridoio, sempre uguale, come se fosse sempre fermo nello stesso luogo. Quando infine, stanco e senza fiato, raggiunse il lato opposto era di nuovo davanti alla porta d’ingresso che dava sul giardino. Dall’alto della quercia, una piuma dorata cadde ai suoi piedi e alzando lo sguardo vide l’Angelo accovacciato sul ramo più basso, ricoperto dai corvi che si poggiavano su di lui come se fosse uno spaventapasseri in cui nessun volatile credeva. Un occhiata vitrea trapelava dai suoi occhi spenti da un infinita tristezza, mentre impassibile soffriva in silenzio anche quando i corvi beccavano sadicamente le sue carni. Il Paladino si animò improvvisamente, concentrando tutta la sua attenzione su quella figura angelica in cui riponeva ora tutta la speranza di ottenere delle risposte: “Eccoti dunque, creatura fatata! Perché non sono morto? E cosa è accaduto alla città?” ma il Paladino non ebbe risposta. L’angelo si sforzò di parlare, aprendo la bocca dalla quale usciva solo un fievole soffio d’aria impercettibile. Inaspettatamente un corvo, poggiato sulla spalla dell’Angelo rispose al posto suo: “Non può parlare Paladino! La sua lingua è stata mozzata, l’angioletta è una decaduta, e ora si ritrova condannata alla sua agonia silenziosa e solitaria, abbandonata al suo destino alla quale come vedi, si è già saggiamente rassegnata.” Il corvo emise uno strano suono gutturale che il Paladino intese come una strana forma di risata, poi lo spregevole uccello d’ossidiana morse con il suo becco il labbro inferiore dell’angelo con una violenza tale che fu sul punto di strapparglielo se il Paladino non gli avesse gridato di smetterla. Il viso dell’Angelo venne solcato da delle profonde lacrime che si ricongiunsero al sangue che ora usciva copioso dal suo labbro sfregiato, mentre continuava nella sua aura di desolazione a fissare il vuoto.

Il corvo riprese a parlare divertito: “Vengono prenderti Anand!” poi la bestia rise ancora gracidando in modo convulso, prima di tacere generando un silenzio malsano, come se fosse un incubo da cui destarsi prima della rivelazione fatale la quale non lascerà più scampo al terrore. “Corvo malefico. Come sai il mio nome?” chiese il paladino tentando invano di non perdere il suo ordine di idee.

Come osi considerarmi una di queste bestie!” gridò il corvo in preda all’ira mentre tutti gli altri uccelli si alzarono improvvisamente in volo spaventati e fuggirono in un rumoroso sbattere d’ali e versi incomprensibili: “L’animale che vedi non è altro che uno dei tanti occhi con cui posso osservare questi luoghi. E apprendo cose molto complesse, oltre a dei semplici nomi come il tuo.” Spalancò le ali in un gesto sontuoso, degno della più alta manifestazione di egocentrismo di cui una creatura può essere capace: “Io sono Morghen. Signore della Necromanzia, padrone dei segreti della vita, della morte e del tempo.”

Dunque Morghen, tu sai cos’è accaduto. Dammi una risposta, e cessa di tormentare inutilmente quell’angelo.”

Il tormento dell’angioletta è uno spettacolo piacevole cui assistere, ma non ne sono io l’artefice. Riguardo alla tua risposta: Loro stanno arrivando! E presto non avrai più bisogno di sapere nulla.”

La nebbia si diradò lasciando intravedere oltre il cancello, in fondo alla via, cinque sagome nere di uomini immobili ad attenderlo. Le vide come ombre inanimate volte ad esprimere una sincera, quanto ignota minaccia nei suoi confronti.

Capitolo 2: I messaggeri

Le figure spettrali in fondo alla via si scambiavano di posto continuamente senza avanzare e Anand le fissava cercando di capirci qualcosa, mentre il corvo sul ramo adesso gracidava normalmente essendosi da un istante all’altro trasformatosi in un normalissimo volatile.

Il desiderio di comprendere quanto gli accadeva attorno dominava ogni fibra dei suoi pensieri, dovendo vincere quest’oscuro sentimento di terrore che l’affliggeva. Solo l’angelo forse era una sua alleata, ma malgrado non ci fossero più animali a torturarla continuava a restare assente, come se le fosse stata tolta in qualche modo la ragione d’esistere.

L’abilità nell’uso della spada non gli dava motivo di temere le sagome, ed iniziò ad avanzare verso di loro cominciando lentamente a scorgerne le fattezze: mentre era a metà strada per raggiungerle gli parvero tutti e cinque delle bozze di degli individui aventi aspetto identico come fossero delle matrioske, ma più s’avvicinava e meglio s’accorgeva di come nel viso di ognuno di loro mancasse qualcosa. Uno non aveva le orecchie ed al vedere sopraggiungere Anand si allontanò scomparendo rapidamente in una strada in pendenza. Successivamente un secondo al quale mancava il naso fece altrettanto e rimanevano soltanto in tre impassibili ad aspettarlo.

Alla sua sinistra vi era un uomo senza bocca e alla sua destra un altro con le orbite vuote, mentre al centro dominava la figura di un essere umano privo di lineamenti. Eppure quest’ultimo sembrava essere la mente che dominava i pensieri degli altri due, come se fossero involucri di cui si serviva per poter vedere e comunicare.

Così una volta fermatosi a pochi metri da loro, l’uomo con la bocca fece sentire la sua voce gracchiante e severa, parlando molto forte quasi al livello di gridare: “Annunciamo la sua venuta!”

Quei soggetti bizzarri apparivano tutto fuorché pericolosi, sebbene gli trasmettessero un leggero senso di disagio: “Chi sta venendo?” chiese.

Questo luogo è un riflesso della vita dove vagano le anime trapassate per raggiungere il mare dei morti ove il traghettatore è in attesa di scortarle nell’aldilà. E’ un illusione destinata a scomparire con l’avvento del nulla. Noi siamo i messaggeri del nulla e annunciamo la sua venuta!”

L’uomo con gli occhi puntò il suo dito verso il distante orizzonte facendo notare ad Anand una lontana nube nera che avanzava rapidamente inghiottendo tutto quel che aveva di fronte.

Il tuo angelo custode avrebbe dovuto guidarti, ma il corvo l’ha impedito.”

Intendi dire Morghen? L’uccello parlante?”

Il corvo è Morghen, ma Morghen non è un corvo.”

Ma mi aveva detto di non essere stato lui.”

Il corvo mente. Gli angeli dicono sempre la verità e nessuno deve sapere cosa Morghen vuole fare, così ha impedito all’angelo per sempre di poter parlare.”

Tu sei morto!” continuò l’uomo con la bocca “Devi pagare il pedaggio a Caronte prima che il nulla ti raggiunga, altrimenti diverrai parte di esso.”

Pagare?” chiese il paladino sconcertato.

L’essere dalle orbite vuote lanciò un urlo violento ed ammonitrice: “Non hai la moneta!? Allora dovrai guadagnartela.”

E così il tizio che disponeva della vista indicò un pozzo su una collina accanto ad una casetta di pietra simile alla vecchia dimora di un pastore.

Nel pozzo c’è sempre chi getta una moneta per far avverare un suo desiderio. Vai al pozzo, fai in fretta. Addio.”

Capitolo tre: Il pozzo

L’ambiente si manteneva stagnante in quel momento della giornata crepuscolare che precede l’arrivo della notte, ma l’aspetto del cielo era mutato diventando semplicemente grigio e squallido mentre si inerpicava per il ripido sentiero che conduceva al pozzo. Giunto sulla sommità di quell’altura, poteva godere dell’ampia vista panoramica di tutto ciò che si trovasse alle pendici della collina: dal lato opposto alla città desolata si estendeva una boscaglia che terminava dove si intravedeva luccicare l’acqua del mare lasciando facilmente immaginare da qualche parte il traghettatore sostare sulla spiaggia in attesa.

La casa di pietra aveva la porta socchiusa verso l’interno e sentiva un aria pesante attorno a se come ci fosse un terrificante presenza ad attenderlo da qualche parte.

D’un tratto come in risposta alle sue angosce sentì i passi di delle persone che stavano raggiungendo quell’altura costringendolo istintivamente a sguainare la sua spada che tanto cominciava a sembrargli inutile. Stette in attesa e vide sbucare esausti due tizi tra cui una ragazza dai capelli rossi come il sole che tramontava all’orizzonte. Indossava un umile veste strappata ai bordi lungo le caviglie, dal colore bluastro e scolorito simile alle notti rischiarate dalla luna.

L’altro era un uomo dall’aspetto rude ma intelligente che fu il primo a porgere ad Anand il saluto per quanto non riuscisse a nascondere nel suo viso una certa espressione di sorpresa nel vedere qualcun altro recatosi sopra quella collina.

Sei salito anche tu sin quassù per questa storia del pozzo?” disse l’uomo rivolto al paladino con tono sprezzante ma amichevole. La donna giovane e bella com’era si limitava sorridere non riuscendo tuttavia a far scomparire dal suo viso un espressione lugubre e preoccupata.

Siamo intrappolati nel nostro ultimo istante di vita a quanto ho capito dall’angelo. Ci stava spiegando un sacco di cose prima che quel figlio di troia d’un negromante non lo sodomizzasse e le tagliasse la lingua. Comunque lieta di conoscerti, io sono Marlene e lui si chiama Rufus”

Rufus salutò in risposta Anand con un cenno del capo per poi continuare il discorso interrotto dalla donna: “Sembra facile: caliamoci nel pozzo, prendiamoci le monete e andiamo via da questo posto di merda.”

Si recarono insieme sull’orlo del pozzo per osservare quanto fosse profondo, ma nulla trapelava dalle tenebre e potevano soltanto udire un sibilo spettrale quasi impercettibile. Per scendere era stato predisposto un grosso secchio di metallo la cui corda era annodata a una carrucola, per cui sarebbe bastato sciogliere il nodo per far lentamente calare il secchio verso il basso.

Così Rufus con espressione divertita si sfregò le mani: “Allora gente. Chi scende per primo?”

In risposta dalle profondità del pozzo giunse un sussurro: “Lanciate una moneta ed esprimete un desiderio. Si avvererà!”

I tre retrocedettero di qualche passo mentre alle loro spalle, proveniente dall’interno della casetta in pietra si sentiva suonare una pianola che eseguiva una melodia troppo complessa per la scarsità sonora dello strumento. Entrando all’interno del piccolo edificio potevano vedere seduto all’interno di un teatro per le marionette un grosso burattino con le sopracciglia inarcate verso l’alto e dei folli occhi a mandorla che lo facevano sembrare un mefistofele giapponese. Alla sua destra vi era la pianola suonata da un essere dalle lunghe vesti grigie e i capelli neri che gli arrivavano sino ai piedi. Egli interruppe la musica, si girò lanciando un sorriso bestiale ai presenti ed allargò le braccia in un gesto sontuoso, degno della più alta manifestazione di egocentrismo di cui una creatura può essere capace. L’estremo pallore del suo viso entrava in contrasto con degli occhi rossi gravemente infiammati quasi fossero iniettati di sangue mentre le sue mani grigiastre erano due volte più grandi del normale. Non sembrava quasi neanche umano e il timbro della sua voce faceva venire in mente un demone risalito dalle viscere degli inferi: “Benvenuti nella mia umile dimora provvisoria.”

Morghen!” esclamò Anand con un fremito nella voce mentre si preparava per sguainare la sua lama:

L’unico e il solo in carne ed ossa. Ti prego di non fare gesti avventati di cui potresti pentirti paladino. Sarei in grado di neutralizzarti con un semplice schiocco delle dita. Dunque comportatevi bene e cercate di collaborare, mi rincrescerebbe farvi del male quando dovete recuperare una cosa per me.”

Marlene, estremamente coraggiosa, mostrava di non temere in alcun modo il necromante mettendosi le mani ai fianchi in segno di sfida: “Visto che sei così potente razza di spauracchio sadico, perché non te la prendi da solo la moneta?”

Inaspettatamente a rispondere non fu lo stregone, ma bensì la marionetta: “Ragazzina hai tutti i torti: la moneta è per i morti!” Detto questo si esibì in un balletto in cui sbatteva goffamente sul pavimento le gambe legnose, agitando contemporaneamente mani e braccia in modo convulso come stesse lanciando un sortilegio. Morghen fece smettere quell’esibizione con un rapido gesto della mano e poi sorrise alla ragazza: “La mia adorabile marionetta a modo suo ti ha spiegato il perché. In verità si tratta di una questione molto complessa ma per farla comprendere a un cervello limitato come il tuo ti basti sapere che non dovrei essere qui e molte azioni in questo luogo mi sono precluse, compresa quella di calarmi nel pozzo… ma, aspetta. Dov’è quel tuo amico chiamato Rufus? Ora sono io il vostro angelo custode e non vorrei che qualcuno di voi si possa perdere.” Nella voce del negromante vi era un evidente nota di ironia, mentre Anand e la ragazza si guardavano attorno uscendo fuori dalla casupola chiamando ad alta voce il nome di Rufus. Quando i loro occhi si posarono sul pozzo gli fu subito tutto chiaro: il ragazzo si era calato nelle profondità a loro insaputa per recuperare la moneta il prima possibile nella speranza di poter sfuggire in seguito alle grinfie di Morghen.

Nell’abisso si è calato, il vostro amico e già spacciato.” Recitò il burattino prima di emettere una sgradevole risata atonale.

Scrutando l’orizzonte potevano notare l’enorme nube nera che avanzava divorando ogni cosa, prossima al raggiungere la città deserta sottostante.

Anand comprese che non gli restava molto tempo: “Marlene, io scendo!”

La ragazza lo guardò contrariata ma il paladino non le badava cominciando subito a girare la carrucola per far risalire il secchio metallico il quale era stranamente assai pesante. Dalle tenebre riapparve Rufus seduto sul secchio col viso in decomposizione di cui era visibile parte dello scheletro mascellare. Era ancora vivo, ma interamente ricoperto di pustole ed inondato di un verdastro fluido fluorescente che gli usciva dal corpo, mischiato col sangue delle sue numerose ferite. Con l’aiuto di Marlene lo trasportarono rapidamente all’interno della casa di pietra adagiandolo in fretta sul pavimento ricolmi d’orrore per il fatto che fosse ancora vivo, riuscendo persino brevemente a parlare: ”Il fondo del pozzo è il tempio dell’arroganza umana! Fluttua un teschio che si nutre dei desideri, riempiendoti la mente di odio e terrore facendoti alla fine desiderare la morte… le monete sono nelle cavità dei suoi occhi… ciascuna raffigura un occhio in lacrime. E’ un illusione...”

Ma Rufus non poté terminare la frase giacché le sue corde vocali s’erano già sciolte come burro assieme al suo corpo del quale in breve tempo rimase soltanto un fluido verde cosparso sul pavimento che odorava di rogna d’animale in putrefazione.

Il primo si è già sciolto. Non durerete molto.” disse in modo meccanico la marionetta, mentre Marlene irritata tratteneva il respiro per il fetore e Anand usciva all’esterno per prendere un po’ d’aria osservando ora la nube entropica del vuoto che aveva inghiottito quasi tutta la città.

Il nulla. Il nulla. Tuttò sta divorando. Il nulla. Il nulla. Il nulla sta arrivando!” Il burattino incominciò ad emettere una risata stridula che continuò fino a quando Marlene non lo afferrò furiosamente per il collo, sfracellandogli la testa contro la parete in modo da farlo tacere definitivamente.

Morghen era indifferente a quando accadeva e rimaneva seduto pensieroso in attesa rendendo ancora più angosciata e sconvolta la ragazza che si recò fuori per non respirare il terribile odore formatosi all’interno dell’abitazione. Incrociò lo sguardo assorto di Anand i cui occhi luminosi eran per lei l’ultimo bagliore di speranza che le impediva di restare attanagliata nella solitudine opprimente di quel regno delle fatalità.

Così il paladino si appoggiava sul bordo del pozzo ad udire gli inquietanti sibili che risalivano dalle profondità, mentre Marlene gli afferrava le mani mostrando in suoi bianchi denti in un dolce ma melanconico sorriso: “Vengo con te! Non ti lascerò...”

Anand la interruppe poggiandogli delicatamente due dita sulle labbra per farla tacere; quel senso immane di pericolo che lo circondava gli aveva conferito un coraggio che mai aveva avuto in vita. D’un tratto nessuna sfida appariva a lui impossibile tanto era forte la determinazione di dover porre fine a tutto. Quando guardava quella giovane donna vedeva il sole celato oltre quelle nuvole spettrali e già immaginava loro due seduti abbracciati sulla barca, sfuggiti all’orrore.

In qualche modo doveva renderlo possibile: “Marlene. Ti prometto che tornerò da te, qualunque cosa accadrà la sotto.”

Detto questo la baciò sulla fronte prima di far calare la carrucola: dalla superficie poteva udire la pianola della casetta che aveva ripreso a suonare un brano grottesco e complicato il cui suono andava sempre più sfumando man mano che lentamente discendeva nell’abisso.

Capitolo quattro: Il destino

La sua mente diveniva sempre più sgombra, libera dal peso dei ricordi come se si calasse in un luogo senza tempo né memoria, dove dominavano i più antichi istinti del genere umano e i sussurri ora erano chiari e ben distinti fra loro: “Vieni da me.”

Alfine il secchio metallico toccò il fondo: le pareti erano quasi fosforescenti ed emanavano una quantità di luce sufficiente per mostrare le fattezze di un enorme teschio con la mandibola spalancata che fluttuava al centro di quella sorta d’alcova sotterranea.

Anand non guardava nient’altro se non le monete scintillanti incastonate negli occhi del teschio, giacché erano esattamente come Rufus le aveva descritte: sulla superficie dorata raffiguravano ciascuna un occhio nero in lacrime: “Desideri i miei occhi? Se solo sapessi cos’hanno visto… prendili!”

Il paladino non comprendeva quali fossero le intenzioni di quell’essere ma dentro di sé sentiva crescere la bramosia per le monete, il biglietto di sola andata per il regno della salvezza. Lentamente si avvicinò e provò a staccarle dalle cavità oculari del teschio che non si muoveva, continuando soltanto a far oscillare lievemente la mascella su e giù.

Le estrasse senza alcuna difficoltà, impressionato da come l’impresa fosse semplice dopodiché senza pensarci un solo istante corse al secchio metallico per dare uno strattone alla corda così da far da segnale alla ragazza di tirarlo su. Ma la corda giaceva arrotolata al suolo non più legata ad alcuna estremità.

Un violento brivido assalì il paladino che divenne pallido avendo compreso quant’accadeva. Guardò l’immagine degli occhi in lacrime dipinti sul dorso delle monete, stringendole violentemente tra le mani mentre cadeva in ginocchio gemendo per la disperazione.

Il sussurro finale del teschio riecheggiò nella piccola caverna: “Tempus fugit, è tardi ormai. Il nulla ha già divorato la superficie e non vi è più alcun luogo dove esistere all’infuori di questo. Desideravi la moneta? Bene: goditela per l’eternità.”

FINE

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