Il sonnambulo

Giungeva il crepuscolo, in un lungo vicolo inondato di scatoloni, ove dimoravano quasi immobili come statue uomini senza speranza accatastati a tratti l’uno sopra l’altro per riscaldarsi in un quel breve spazio di miseria concesso loro; giacché il povero è ovunque straniero. In fondo a quel lungo corridoio di gente dannata si ergevano imponenti palazzi ed edifici sontuosi ornati di luci di mille colori dai quali si accedeva oltrepassando quattro piccoli gradini a segnare il confine tra la miseria e il benestare. Tra quei tanti senza volto vi è la mia storia, immersa nei ricordi della vita che avevo prima di finire disteso su un materasso sfondato di gommapiuma all’interno di un enorme scatola recante l’insegna di dei pannoloni per lattanti.

Questa è la sorte che può toccare a chi riempiendosi gli occhi di fumo accetta mille falsità per realizzare un sogno americano d’esportazione. Quando persi il lavoro, in seguito al fallimento dell’azienda in cui ero impiegato, mia moglie trovò mille motivi per litigare fino a chiedere il divorzio.

I veri amici sono coloro che ti restano accanto aiutandoti in tutti i modi possibili quando si attraversa un periodo drammatico, così mi accorsi di non averne nemmeno uno. Dei parenti, i pochi buoni che avevo sono morti, e quelli in vita sono degli stronzi che mi detestano e l’unico luogo in cui mi vorrebbero vedere è disteso in una bara.

L’insieme di queste cause mi condusse ai confini della miseria, ad aspettare di morire asfissiato dall’aria fetida di questa città infernale con un cuore gonfio d’amarezza nel comprendere fino a che punto fossero fievoli e meschini i sentimenti della gente con cui avevo vissuto. Avrebbero assai più meritato loro di finire qui sepolti in mezzo all’immondizia. Invece i primi a cadere sono spesso le persone buone dotate di sensibilità profonda. Quando il pensiero di qualcosa che mi spiaceva ricordare mi attraversava la mente finivo spesso per ripetere senza quasi rendermene conto una frase casuale ad alta voce: “il mondo è fottuto!” cominciai a dire più volte riprendendo a vagabondare per cercar qualcosa da mettere sotto i denti.

La città era silenziosa e deserta, sembrava molto più tardi di quanto fosse, eppure potei vedere alcuni lavoratori fare rientro nelle proprie case con espressione contenta in viso, pareva quello l’unico momento dove il loro animo si risollevava in una giornata vissuta nell’amarezza degli interminabili turni di lavoro. In fondo alla via stavano smontando la fiera, ma quel che smontavano tuttavia non erano altro che baracche nelle quali si sbrigavano gli affari alla luce del sole. La notte offriva molte altre attività e servizi impensabili durante il giorno, nello stesso luogo che sembrava essere scomparso, deboli fasci di luce uscivano da alcuni edifici agli angoli delle strade, al loro interno poteva esserci di tutto, oppure niente in particolare. Come quella locanda... forse fui guidato verso di essa da qualche forma d’istinto, l’istinto a sua volta guidato da una voce inudibile, la quale ripeteva lentamente il mio nome. Essa inudibile poiché al giunger della soglia d’ingresso i suoni divenner muti, la strada fino all’istante precedente semideserta tacque all’improvviso rendendo sordo anche il fruscio del vento nella notte gelida. Assorto nel vano tentativo di spiegare razionalmente quell’alone soprannaturale feci il mio ingresso nell’edifico senza rendermene conto e guardai con lieve interesse l’ambiente circostante, anche se vi era ben poco da guardare: i tavoli distribuiti in maniera irregolare a gran distanza l’uno dall’altro si intravedevano a malapena, l’oscurità regnava padrona e la stanza era avvolta in una sottile nube di fumo dall’odore gradevole e l’origine ignota.

Tra il buio e la nube di visibile c’erano solo due tavoli nei pressi del bancone dove al centro stava una grande e antiquata lampada a petrolio, la quale illuminava l’intero luogo. Emanava una luce fioca rilassante e ancora una volta agii senza pensare a quel che facevo sedendomi nel primo dei due tavoli alla destra del bancone. L’altro era occupato da due individui, nonostante fosse ben illuminato non riuscivo a visualizzare chiaramente le fattezze di chi vi fosse seduto. Un tipo giovane, dall’accento raffinato, venne da me domandando: ”Gradisce qualcosa?” Mi misi le mani in tasca tintinnando con le monetine per contare quanti spiccioli avanzassero, e possedevo a stento il denaro per un “Whiskey, liscio”. L’uomo tornò a breve con un calice che poggiò delicatamente sul tavolo. Rimasi stupito da tale eleganza. Osservai il Whiskey nel calice bronzeo, pensando a cosa stessi facendo lì seduto a sorseggiare, avendo speso tutto quel che avevo in tasca, mentre avrei dovuto recarmi alla difficile ricerca di qualcosa da mangiare, e magari rimediare qualche soldo. Stavo per bere quel Whiskey scurissimo, talmente scuro da non sembrare neppure Whiskey, quando vi vidi riflesso il volto di mio padre. Mi aspettavo che dicesse qualcosa, una qualunque, e invece restava a fissarmi senza proferir parola, con uno strano sorriso dipinto sulle labbra. Lo bevvi tutto d’un sorso pur di togliermi la sua immagine davanti; cominciavo ad avere diversi dubbi sulla natura bonaria del fumo, anzi, ero ormai certo facesse male alla salute. Così mi alzai per andarmene e immerso nei pensieri urtai accidentalmente lo stesso servitore dalle buone maniere di prima, al quale cadde quasi la ciotola che aveva in mano. In effetti gestiva il locale da solo, e questo, per una ragione imprecisa mi dava un impressione ancor più cupa del posto. Guardandomi attorno un ultima volta, notai la luce della lampada sopra il bancone interrompersi a pochi centimetri da un tavolo all’angolo, come se in quel determinato punto ci fosse una barriera invisibile in grado di impedire il passaggio alle fonti luminose. Pensavo che fosse solo una mia bizzarra impressione, e invece la cosa era sin troppo evidente: la luce veniva piegata da un oscurità innaturale. Avvicinandomi incuriosito per lo strano effetto, sentii una voce estremamente bassa come se venisse dall’oltretomba ripetere “Sono tornato!”

Si alzò in piedi un uomo dal viso pallido e lacerato, la cui pelle ruvida, decadente, mostrava i segni di un età molto avanzata. Uscendo a passi lenti dall’oscurità, inondava di tenebra lo spazio in cui camminava e mi rivolse un bieco sorriso, faticando a reggere il peso del proprio corpo. S‘avviò lentamente verso una porta che conduceva in una stanza interna del locale.

Il modo in cui mi aveva guardato era come se cercasse un intesa nell’intimarmi a seguirlo e così feci; che cosa avevo da perdere dopotutto?

All’interno della stanza dove s’era recato, il fumo era molto più denso, nonché si trattava del suo luogo di provenienza, essendo la sala piena di cuscini e ampi divani dove parecchie persone fumavano oppio sdraiate in stato di semi-incoscienza. L’uomo dal viso pallido quasi bianco, stava al centro della stanza con le braccia spalancate, contento di vedermi lì dentro. “Accomodati amico mio.” Una graziosa fanciulla dal viso così lucido ed innocente mi prese gentilmente per mano portandomi in un comodissimo giaciglio dai cuscini rossi dove mi distesi lasciandomi dolcemente andare, divenendo improvvisamente affascinato dalla nebbia della sala… appena giunse una pipa d’oppio cominciai subito a fumarla.

Arcadia

Giunsi in un tempio orientale tra le nuvole azzurre del cielo, immerso in una pace sconfinata. Sorridevo di gioia mentre non sentivo più alcun dolore e il mio passo era divenuto felpato e leggero come se potessi fluttuare angelicamente nell’aria.

Entrato nel tempio vidi un giardino bellissimo nel quale dimoravano uccelli dai mille colori e un cerbiatto mi osservava da lontano con occhi curiosi… avanzavo nel verde, toccavo l’erba bagnata, annusavo il profumo dei fiori, mi sentivo vivo come mai prima d’ora.

In quel luogo vi era tutto quel che avevo sempre sognato e mi sentii talmente felice che piansi a lungo fino all’udire la porta scorrevole dell’edificio che si apriva, e all’interno c’era la fanciulla che avevo veduto in precedenza nell’oppieria: adesso appariva ancor più incantevole, indossando un kimono azzurro finemente ricamato e degli orecchini argentei che esaltavano lo splendore del suo viso.

Un attimo dopo prendevamo il tè insieme, e lei mi cominciò a parlare a lungo di una certa Heng'e, una figura mitologica cinese che stranamente già conoscevo come se d’improvviso la mia mente si fosse riempita di ricordi ancestrali d’epoche remote. Fuori una grande luna brillava nel cielo: il tempo sembrava aver cessato d’esistere e s’alternavano momenti di sublime silenzio ad altri in cui nella stanza risuonava la candida voce della fanciulla che tanto amavo ascoltare. Insieme passeggiavamo per il nostro giardino, ora tenendoci per mano, ora contemplando il riflesso delle cose sullo specchio d’acqua di un lago profondo nel quale un rospo nuotava.

All’improvviso respiravo nuovamente l’asfissiante aria della città e sentivo un'altra volta gli assordanti suoni delle auto e i dolori dei miei malanni, tra cui un tremendo mal di testa. Ero di nuovo in un quell’orrendo vicolo di barboni in preda ad una fame spaventosa, vittima di una forte nausea mentre mi guardavo attorno disgustato, incontrando il pallido essere ambiguo che attendeva il mio risveglio seduto a pochi metri di distanza: “Bentornato all’inferno!” mi disse ridendo.

Preda di forti e incontrollabili tremori mi convincevo che quell’orrendo vicolo non poteva essere reale: io vivevo in un bellissimo tempio tra le nuvole azzurre del cielo assieme alla dama orientale mia compagna. Cosa diamine ci facevo in un covo di miserabili condannati alla morte in agonia?

“Vuoi tornare a casa, non è vero?” mi chiese quella specie di necromante.

“Si!” Dissi con tutto il fiato che avevo in gola al punto da far voltare gli altri senzatetto a fissarmi, mentre nessuno pareva notare la presenza del mio interlocutore.

“Allora dovrai fare una cosa per me.” Egli uscì dalla tasca della sua veste le fotografie di due giovani ragazze cinesi: “Si chiamano Jin e Mei Mei, stanotte torneranno a casa con la metropolitana alle 4:40 del mattino, devi seguirle e ucciderle per me. Dopo potrai tornare nel tuo mondo tutte le volte che desideri, affare fatto?”

Accettai senza pensarci un secondo: mi trovavo in incubo da cui destarmi e quel negromante era la mia unica ancora di salvezza.

Sangue e rugiada

Le note di una chitarra lenta e priva di scorrevolezza alcuna vibravano in un vagone della metrò, le cui rumorose rotaie del treno in corsa e l’ora veramente tarda contribuivano a donargli uno squallore unico. Vi erano cinque passeggeri, e dovevano essere circa le 4:50 del mattino... un po’ prima un po’ dopo non fa alcuna differenza. Un suonatore di strada che sbagliava due note su tre ed interrompeva in continuazione quella sorta di canzone s’accingeva a comporre, restando pensieroso su cos’è che non andasse (tutto a dire il vero). Un signore sullo sfondo, quasi fosse stato dipinto sull’ultima sedia e la sua presenza non fosse reale, fumava, senza accennare il minimo movimento fisico, una sigaretta interminabile, tanto erano lente le sue boccate e tanto era lungo il tempo in cui tratteneva il fumo nei polmoni. Poi, in un mondo completamente a parte, senza dar la minima importanza all’ambiente circostante, c’erano due giovani ragazze cinesi che ridendo di chissà cosa, forse di nulla in particolare, guardavano le foto di un macchina fotografica digitale. E l’ultimo personaggio che compone la scena, il sottoscritto, leggeva il quotidiano del mattino preso alla fermata precedente, freschissimo di stampa. Jin, una delle due ragazze cinesi, era esile, di bassa statura, con dei corti capelli neri come la notte, e due occhi che racchiudevano tutte le cose del mondo. Di tanto in tanto girava distrattamente lo sguardo al resto del vagone, ritornando anche per pochi istanti nella dura e fredda realtà basata su menzogne e sulla triste solitudine che pervade ovunque, ogni individuo, anche quello con più relazioni in assoluto. Ma per fortuna ci pensava subito la sua amica Mei Mei a riportarla in un universo allegro, dove ogni pensiero dura un momento e nulla è davvero importante, perché se lo fosse smetterebbe di divertire. Adesso capisco perché tali giovani sono tanto invidiati: forse possiedono nell’animo valori che gente più adulta e matura ha perduto da qualche parte strada facendo, escludendo quegli sfortunati costretti dal cinico mondo a divenir adulti in netto anticipo.

Ero cauto nell’agire, non potevo permettermi di sbagliare. Il posto scelto a sedere era davvero perfetto: la giusta distanza e un neon sopra la testa che lampeggiava per mal funzionamento mentre gli altri emanavano una luce più bassa del normale. Tenevo il giornale ben aperto in modo che fosse impossibile scorgere il mio viso anche per un istante, nessuno dei presenti tra l’altro aveva il minimo interesse alla mia persona, nessuno mi degnava di uno sguardo, eccetto la curiosa Jin.

Quando il treno si fermò le due giovani scesero stanche e assonnate, ma infondendosi nell’animo vitalità, si ingannavano a vicenda come avessero ancora chissà quali energie nascoste. I loro passi riecheggiavano nell’enorme sala d’attesa dei treni, sorretta da colonne di cemento, deserta come un parcheggio abbandonato, se non fosse che il pavimento era talmente lucido da formare un immagine chiara e ben definita dei passanti, quasi a potersi specchiare sopra di esso. Giunte alla biglietteria non trovarono nessuno, persino il bigliettaio era assente, sostituito durante il turno di notte da una macchina poco socievole, in particolar modo quando sbagliava a tornare il resto. Le due erano nei pressi della scala mobile quando sentirono l’inevitabile rimbombare delle mie scarpe alle loro spalle: si girarono e furono subito sorprese ed impaurite a vedermi uscire così, dall’oscurità, senza avermi visto scendere in precedenza dal treno, sempre con quel giornale davanti al viso. Più avanzavo e più tremavano senza sapere il perché, erano rimaste ferme, immote come delle fragili foglie autunnali, ad un passo dalla scala mobile che guidava verso l’uscita. Si dissero qualche parola sussurrata, poi di corsa precipitosa, salirono le scale in preda ad un terribile spavento, e una volta fuori, via verso le strade isolate della periferia, lontano dalla metropolitana, lontano da me.

Si fermarono all’entrata di un vicolo, dove toccandosi le ginocchia, riprendendo fiato per lo sforzo, ridevano di gusto quasi a poter leggere i propri pensieri: “Che assurdità: il tizio nascosto dietro il giornale che ci perseguitava. Ma come abbiamo fatto a pensare solo per un attimo una cosa simile?”. Era questo che stavano pensando: pensavano d’aver preso in giro se stesse, tutto era gioco, la vita era un gioco, non esisteva nulla di serio. Avrebbero dovuto crescere più rapidamente per sapere la verità su questo mondo di spettri che gridano vendetta!

Sentivo addosso il respiro ansimante di Mei Mei: era bella quanto la sua amica del cuore, capelli lunghi e morbidi come fila di seta mi sfiorarono il viso, ma lei non se ne avvide, io non respiravo, ero un blocco di cemento accanto al suo volto rilassato e colmo di beatitudine. Più annusavo quell’alito freddo femminile, più la mia mano stringeva con forza il manico del coltello che, padrone di una volontà propria, iniziò a sfregiare quella faccia, facendo esplodere le arterie una dopo l’altra, tagliando infine la vena centrale del collo in un fiume di sangue. La curiosa Jin riuscì a stento a percorrere qualche metro, quando gli afferrai il braccio. Cosa strana e innaturale non tentò di liberarsi, lasciando scivolare la mia mano nella sua quasi ad essersi arresa a quel destino fatale: sentii le sue dita delicate scricchiolare sempre più forte man mano che la mia presa si rafforzava e lei mi guardava terrorizzata nel suo ultimo atto di vane speranze. Quando la mia lama strappava le vesti assieme alle carni fino mostrarne le interiora, le sue grida non resero giustizia alle sofferenze che gli arrecavo, e i suoi occhi, che fino ad un istante prima racchiudevano ogni cosa bella ci fosse in questo mondo crudele, adesso erano vuoti ed inanimati, come se l’insieme di tutto, alla fine fosse il nulla; e il sangue si mischiava con la rugiada sull’asfalto, quando poche gocce d’acqua mi caddero sul viso, quasi non le sentivo. Stava per piovere, era meglio mettersi al riparo.

Eclisse

Tornato all’interno del locale il negromante mi accolse con gioia accompagnandomi all’oppieria dove potei distendermi serenamente. Mentre riprendevo a fumare sentivo le mie sofferenze svanire… un attimo dopo vagavo nuovamente nel giardino del tempio immerso nella pace. La mia meravigliosa dama era seduta ai piedi di una grossa quercia, aveva dinanzi a se disteso una tovaglia per un picnic e mi invitò a far colazione con lei. Non mangiai nulla di così buono prima d’allora, la dama col suo sguardo contemplativo mi osservava con piacere sorseggiare il latte fresco dalla tazza. Appena ebbi terminato giunsero due giovani ragazze cinesi che mi salutarono allegramente presentandosi con un buffo inchino scherzoso: dissero di chiamarsi Jin e Mei Mei. La loro allegra spensieratezza bastava a scaldare il cuore e poter nuovamente vagare per il grande tempio fu una sensazione indescrivibile: le stanze interne, piene di arazzi magnifici erano talmente suggestive da farmi sentire un bambino curioso che esplorava un mondo magico. Ero così ispirato da cotanta bellezza che mi sedetti ad un tavolo per scrivere una poesia sulla mia giovane dama di compagnia e sulle due ragazze che avevo incontrato mentre facevo colazione in giardino. Trovai una penna rossa a portata di mano e incominciai subito a buttar giù appassionatamente le prime strofe quando la sfera della penna esplose e l’inchiostro color sangue riempì tutto il foglio macchiandomi anche le mani. Corsi in bagno per immergerle in un secchio d’acqua, ma per quanto strofinassi forte col sapone il colore dell’inchiostro non andava più via. Solo allora m’accorsi di come la luce dell’ambiente stesse lentamente diminuendo. Guardai alla finestra la luna eclissarsi e il tempio pareva letteralmente venire risucchiato dalle tenebre. Jin e Mei Mei mi si pararono dinanzi: avevano perduto improvvisamente tutta la loro allegria e spensieratezza, come creature mutilate risorte dalla tomba mi lanciavano uno sguardo accusatore mentre il sangue di cui le mie mani s’erano macchiate ricominciò ad esser fresco come se non si fosse mai asciugato.

Distolsi l’attenzione da tutto questo in preda al panico, guardando fuori dalla finestra il bellissimo giardino che tuttavia man mano si ottenebrava diventava pieno di rovi ed orride erbacce. Chiamai disperato la mia dama ma al suo posto giunse fuori dalla finestra una vecchiaccia malefica dagli occhi di vetro che sibilava come un serpente mentre le ragazze piene di tagli e ferite mortali restavano in attesa alle mie spalle.

“Polizia! Svegliati: sei in arresto! Svegliati ho detto!”

Commenti

  1. Wow!!! Hai scritto una storia molto coinvolgente e il finale proprio ad effetto. Sei stato bravissimo 😉

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    1. Grazie mille come sempre! Questo è un racconto che ho scritto a 16 anni e racchiude una morale semplice alla quale ho sempre creduto.

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